“Tranquilla” e avvelenata: i rifiuti dell'Enel di Brindisi interrati a San Calogero
Secondo la Procura di Vibo, in un'area di 150mila metri quadrati,
sarebbero state stoccate illegalmente circa 135mila tonnellate di
rifiuti che, in realtà, sarebbero stati molto pericolosi e che, sulla
carta, dovevano essere trattati e reimpiegati nel ciclo produttivo della
“Fornace Tranquilla”. Per gli inquirenti, invece, tutto questo
materiale – fanghi e ceneri derivanti dai processi industriali – sarebbe
stato smaltito illegalmente. Interrato. In mezzo agli agrumeti.
LA STORIA
Il 5 novembre 2009 una pattuglia della guardia di finanza di Vibo
sta monitorando un sito industriale apparentemente abbandonato. Gli
uomini delle Fiamme gialle però si accorgono dell'arrivo di una persona,
che apre il lucchetto del cancello ed entra con la sua auto all'interno
della recinzione. Si tratta di Giuseppe Romeo, socio e dipendente della
“Fornace Tranquilla S.r.l.”. Ispezionando l'area, tra cumuli di scarti
provenienti dalla lavorazione dei mattoni, macchinari in disuso,
lamiere, carcasse di veicoli industriali e fusti contenenti olii in
parte riversati a terra, i finanzieri si accorgono di una stranezza: il
piazzale antistante il capannone, in terra battuta, in realtà è la
sommità di un terrapieno, alto oltre 10 metri, costituito da più strati
di terreno con colorazioni diverse. L'odore che ne proviene è quello
acre e pungente degli idrocarburi. Inoltre, lungo le pareti del
terrapieno, ci sono alcune aree molto ben definite in cui manca
completamente qualsiasi forma di vegetazione. Ultimo elemento: tracce
chiare e recenti – all'epoca – di pneumatici di mezzi pesanti, ben
impresse sul terreno. Appare chiaro a quel punto che il sito potrebbe
essere stato utilizzato come discarica di rifiuti di ogni genere. L'area
viene quindi sequestrata, e Romeo viene arrestato. Dai documenti
acquisiti in seguito, gli investigatori cominciano a ricostruire
l'intero ciclo che quei rifiuti hanno seguito prima di arrivare a San
Calogero.
L'azienda di laterizi era autorizzata a ricevere esclusivamente
rifiuti non pericolosi da destinare direttamente al riciclo, senza la
possibilità di metterli in riserva o di accumularli. Dai documenti
sequestrati emerge che dal 17 maggio 2000 al 20 settembre 2007 ci sono
stati 4512 conferimenti, per un totale di oltre 134mila tonnellate di
rifiuti. In media, dunque, venivano effettuati due viaggi al giorno per
60 tonnellate scaricate, una quantità che la fornace, secondo la
Procura, non era assolutamente in grado di smaltire. Dopo circa un anno,
vengono emessi 18 avvisi di conclusione indagini, destinati ad alcuni
responsabili e tecnici della centrale termoelettrica a carbone Enel
“Federico II” di Brindisi, ai titolari della “Tranquilla” e di altre
aziende incaricate del trasporto dei rifiuti dalla Puglia alla Calabria,
e a due dipendenti dell'amministrazione provinciale vibonese, che però
vengono ben presto scagionati dalle accuse. L'impianto accusatorio parla
di presunte responsabilità di Enel, delle ditte di trasporto e di
“Fornace Tranquilla S.r.l.”, i cui responsabili sono accusati di
associazione a delinquere finalizzata al traffico e all’illecito
smaltimento di rifiuti pericolosi, disastro ambientale con conseguente
pericolo per l’incolumità pubblica, avvelenamento di acque e di sostanze
alimentari, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale, falsità
ideologica commessa dal privato in atto pubblico, e gestione non
autorizzata dei rifiuti. La prima udienza del processo doveva tenersi lo
scorso 24 giugno ma, a causa di un difetto di notifica, è stata
rinviata al 25 novembre.
LE RESPONSABILITÀ
Il gup ha disposto il rinvio a giudizio per dodici persone. Si
tratta di Giuseppe Romeo, 67 anni di Taurianova (incaricato della
gestione dei rifiuti che arrivavano all'impianto), Stefano Romeo, 34
anni di Taurianova, Umberto Acquistapace, 80 anni di Rosarno (legale
rappresentante della S.r.l. “Fornace tranquilla”) e Angelo Vangeli
(dipendente e ragioniere della società). Poi ci sono i responsabili
delle società detentrici dei rifiuti e incaricate del trasporto: Vito
Sabatelli, 56 anni di Cisternino (titolare dell'omonima impresa
individuale), Antonio Roma, 70 anni di Carovigno (aministratore unico
della “Società lavori ecologici S.r.l.”), Angelo Ippolito, 39 anni di
Monopoli (rappresentante legale della “Sotram S.r.l.”), Giuseppe Antonio
Marraffa, 49 anni di Carovigno (rappresentante legale, dal 2003 al
2006, della “Ecoservizi S.r.l.”), Vito Antonio Sacco, 53 anni di
Carovigno (amministratore unico, fino al 2003 e dal 2006, della stessa
azienda). Infine gli uomini Enel: Luciano Mirko Pistillo, 54 anni di
Rovigo (responsabile dell'unità di business della centrale di Brindisi
dal 2003 al 2006), Carlo Aiello, 49 anni di Brindisi (responsabile della
liena movimentazione materiali, compresi i rifiuti della “Federico
II”), Diego Baio, 55 anni di Roma (dal 2001 al 2006 responsabile
“Esercizio Ambiente e Sicurezza” della centrale a carbone).
L'IMBROGLIO
Il nodo della questione – l'imbroglio, secondo gli inquirenti –
starebbe tutto nella certificazione del materiale mandato a San
Calogero. Il codice C.e.r. (Catalogo europeo dei rifiuti) è composto da
sei cifre e serve ad identificare i rifiuti in base al processo
produttivo da cui sono generati. Quelli che arrivano ai piedi del monte
Poro sono contrassegnati con il codice 100121 (“fanghi prodotti dal
trattamento in loco degli effluenti”), diversi dai rifiuti pericolosi
che dovrebbero essere identificati con il 100120. Il fatto che quei
rifiuti fossero invece pericolosi emerge – inconfutabilmente, secondo la
Procura – dalla consulenza effettuata dall'Arpacal di Cosenza. Nel sito
sarebbero stati stoccati metalli pesanti, solfuri, cloruri, fluoruri,
nichel, selenio, stagno e vanadio. Si tratta di elementi che in
determinate combinazioni possono generare composti altamente tossici e
cancerogeni, e il consulente tecnico dell'accusa non esclude «la
concreta e reale possibilità che i componenti pericolosi presenti in
abbondanza nel sito potessero essere diffusi nell'ambiente circostante».
In seguito all'operazione, infatti, il prefetto di Vibo ha disposto la
distruzione di tutti i prodotti agricoli coltivati nell'area
interessata. Dalle indagini è emerso inoltre che la quasi totalità dei
rifiuti (il 93% circa) fosse riconducibile all'impianto Enel di
Brindisi, dove il materiale, secondo gli inquirenti, veniva «falsamente
certificato» come non pericoloso. Dopo il trasporto, dunque, i rifiuti
dovevano essere inseriti nel ciclo produttivo, dovevano essere riciclati
nella fornace che ne avrebbe dovuto ricavare materiale per l'edilizia.
Invece, una volta arrivati a San Calogero, fanghi e ceneri industriali
venivano interrati come se si trattasse di una discarica adeguata a
quello scopo. Mandare quei rifiuti in discarica, operando a norma di
legge, sarebbe costato molto di più che destinarli al riutilizzo come
doveva essere fatto alla “Fornace Tranquilla”. La “terza via” che
sarebbe stata praticata dagli imputati – il presunto smaltimento
illecito dei rifiuti che avrebbe provocato un disastro ambientale –
avrebbe fruttato alla presunta associazione un risparmio di oltre 18
milioni di euro.
IL PROCESSO “GEMELLO”
Il 12 maggio 2009 scatta l'operazione “Leucopetra”. Nel territorio
di Motta San Giovanni, paese non molto distante da Reggio Calabria, il
Corpo forestale dello Stato scopre e sequestra una cava abusiva di
rifiuti: 10 persone vengono arrestate e sono posti sotto sequestro beni
per oltre 7 milioni di euro. La Procura della città dello Stretto, che
stava lavorando all'indagine già da 4 anni, scopre un presunto traffico
di rifiuti pericolosi tra Puglia e Calabria. Si parla di circa 100mila
tonnellate di materiale proveniente dalla centrale Enel di Brindisi
interrato in località “Leucopetra”, vicino alla spiaggia di San Lazzaro,
a meno di mezzo chilometro dal mare, in un'area sottoposta a vincoli
idrogeologici e paesaggistici. Le accuse sono disastro ambientale e
associazione finalizzata all'attività organizzata di traffico illecito
di rifiuti pericolosi. Stesso copione, luoghi diversi, stessi
protagonisti: quattro degli imputati del processo di Reggio – Marraffa,
Sabatelli e, per Enel, Aiello e Baio – sono accusati degli stessi reati
nel processo di Vibo. In entrambi i procedimenti si è costituito parte
civile il Wwf Calabria. A Motta San Giovanni le indagini sono cominciate
grazie alle segnalazioni di alcuni cittadini, a San Calogero invece,
prima della scoperta delle Fiamme gialle, la fornace sembrava “solo” una
delle tante fabbriche abbandonate in mezzo al nulla che però, si è
scoperto, aveva ben poco di “tranquillo”.
Pubblicato sul numero 108 de 'Il Corriere della Calabria'
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